“Come un pomeriggio d’ottobre”. Friedrich Nietzsche, Johann Wolfgang von Goethe e lo spirito della musica
“Vorrei capire perché la Sua ‘musica dei Leoni’ mi rinfresca, mi risana, approfondisce il mio pensiero e nel medesimo tempo è allegra e spirituale, simile all’impronta che io ebbi dalla Novella dei Leoni di Goethe (la conosce non è vero? È l’impressione più giovanile e forte che io ebbi di lui) o come Stifter con la sua ‘Fine d’Estate’. Il passo citato fa parte della lettera in data 19 aprile 1887 che Friedrich Nietzsche scrive dal temporaneo eremo di Villa Badia all’amico e allievo Heinrich Köselitz, che si trovava allora a Venezia.
Lo diamo nella versione italiana utilizzata – e lodata – a suo tempo da Zammaretti nel noto saggio del 1985: con l’avvertenza che necessitano alcune rettifiche e precisazioni. Salvo l’accostamento alla musica dell’amico, il giudizio ritorna puntualmente, si può dire con le stesse parole, in un appunto dell’autunno-inverno dell’anno successivo, il 1888, che è stato pubblicato per la prima volta nell’edizione Colli/Montinari (1972) dei frammenti inediti, con il titolo “La frequentazione degli antichi”.

Leggiamo: “Per quanto concerne Goethe” – afferma sempre Friedrich Nietzsche “la prima impressione, molto precoce, è stata decisiva assolutamente: la novella del Leone – cosa singolare, si tratta della prima opera che io abbia letto di lui – è quella che mi ha dato una volta per tutte il mio concetto, e il mio gusto, di G.. Un’aura autunnale pura e sublime, nel gustare le cose permettendo loro di venire a maturazione, nell’attendere un sole d’ottobre fino alla più eccelsa spiritualità; qualcosa di dorato, dolce, mite, non marmoreo – ecco ciò che esprimo con (l’aggettivo) ‘goethiano’. Il filosofo prosegue affermando che l’idea che si è fatta di Goethe lo ha portato a leggere ‘L’estate di San Martino’ di Adalbert Stifter, e che il racconto ha esercitato su di lui ‘il richiamo più forte, dopo Goethe’. La testimonianza è importante: per il modo con cui Nietzsche si rapporta a un autore classico della letteratura nazionale tedesca e per le associazioni che contiene. Riteniamo quella fra la Novella (o ‘novella del leone’ come preferisce chiamarla Nietzsche ) goethiana e l’aura autunnale, il sole del mese d’ottobre.
Ad essa fa eco un brano dei Frammenti postumi (della primavera del 1887: lo si può forse far risalire al soggiorno cannobiese), dove l’aggettivo ‘goethiano’ viene usato come sinonimo di ‘un atteggiamento più gioioso e benevolo verso la sensualità’ (p. 272 dell’edizione italiana, Adelphi, 1975). Potrà sembrare strano che la reminiscenza di letture giovanili che hanno lasciato su di lui un’impronta durevole si presenti alla mente del Nostro – con quel richiamo costante all’atmosfera autunnale – proprio nel bel mezzo del suo soggiorno a Villa Badia, durante quel mese di aprile del 1887 quando, almeno a valutare dalle (scarse) risultanze dell’epistolario, il tempo meteorologico dovette essere marcatamente instabile?
O si tratta solo in apparenza di un fatto paradossale? Lo stato estetico – scrive sempre Nietzsche – è sempre duplice: anche quando nel rapporto con la natura esterna. Prima di rispondere alla domanda dobbiamo accennare all’intreccio di temi che si trovano al centro della riflessione del filosofo negli anni del suo peregrinare attraverso l’Europa, anni che si rivelano particolarmente fecondi sotto il profilo delle opere (ecco un’altra accezione di ‘autunno’ come stagione della vendemmia e delle raccolte!). Se leggiamo l’epistolario contestualmente ai Frammenti postumi – per il periodo che riguarda direttamente il tema di ‘Nietzsche e Cannobio’ – vediamo emergere delle tematiche che si possano forse ordinare con l’aiuto di termini opposti, di polarità, come sarebbero: – la malattia e la ‘salute’ (la malattia esperita come una forma superiore di salute) – la solitudine e l’amicizia (l’amicizia come contemperamento di una solitudine talora esaltata e magnificata, ma più spesso descritta come un’avvilente ‘condizione canina’) – l’Europa (nuova patria del cosmopolita) contrapposta alla Germania (vecchia patria, ‘filistea’, fatta segno alla critica e ai sarcasmi) – il passato e il presente: dimensioni temporali e condizioni esistenziali contrapposte: e nel contempo ‘giudicate’ profeticamente alla luce di un futuro che le sovrasta entrambe infine, come ultima polarità, la primavera e l’autunno. Questo intreccio costante di temi è presente sullo sfondo durante il soggiorno, durato un mese (o giù di lì) presso la pensione della Villa Badia, in quella primavera dell’87. Notiamo di passaggio un’annotazione illuminante sul motivo del paesaggio (tolta dai Frammenti postumi:e ascrivibile al 1887).

Il paesaggio – scrive Nietzsche – ‘cambia come la letteratura’. ‘Nel XVII secolo niente era più brutto di una montagna; essa faceva venire in mente mille idee di sciagura’. Oggi invece – osserva – una contrada selvaggia e così pure ‘l’inconciliabile dominio universale delle nude rocce’ – prosegue passando all’uso del francese ‘nous délasse de nos trottoirs, de nos bureaux et de nos boutiques’. E conclude: ‘Solo perciò l’amiamo’. Ma il tema che si presenta insistentemente nelle sparse notazioni risalenti al periodo del soggiorno cannobiese del Nostro e che focalizza la sua riflessione è rappresentato dalla musica, dalla necessità di una ri-definizione dell’estetica musicale, oltre che del suo ruolo (della musica) nell’esistenza del filosofo, una volta consumata la rottura con Richard Wagner. L’anno seguente – 1888 – è quello de ‘Il caso Wagner’. A questo punto converrà fare un cenno a proposito di quel Peter Gast -alias Heinrich Köselitz- (Annaberg/Sassonia, 1854 – 1918), che il nostro Zammaretti afferma di non aver potuto identificare in termini di anagrafe, pur intuendo (giustamente) che doveva trattarsi di un compositore musicale, oltre che di un allievo del Nietzsche. Ed è per l’appunto nel dialogo epistolare con l’amico e allievo (il K. aveva seguito le lezioni del prof. Nietzsche presso l’università di Basilea) che si svolge fra Cannobio e Venezia, – dove soggiornava allora il K. – che il Nostro porta avanti la sua meditazione sul tema della musica, trova il modo di manifestare critiche e lanciare frecciate (specie in relazione alla moda wagneriana, la ‘Wagnerei’, come la definisce) e di esprimere le sue aspettative (certamente eccessive) riguardo alla statura artistica dell’amico, in cui amerebbe vedere una sorta di anti-Wagner, per non dire un novello Wagner.
Bisogna però dire, ad onore del vero, che in una sua lettera di risposta indirizzata a Nietzsche a Cannobio il Köselitz confessa di sentirsi confuso dalle lodi dell’amico e di temere di non essere all’altezza delle speranze che questi ripone in lui. Ecco dunque il senso di quell’accenno alla composizione musicale de ‘Il leone di Venezia’ (al singolare!), contenuto nella lettera scritta a Cannobio il 19 aprile. Si tratta dell’opera buffa a cui Peter Gast stava lavorando nel 1887 (ultimata e data alle stampe nel 1891). La partitura veniva inviata per posta a Nietzsche (esperto conoscitore in materia e compositore lui stesso, come giova ricordare) insieme alle bozze de ‘La genealogia della morale’ che il K. correggeva stando a Venezia per venire in aiuto al maestro, gravemente malato agli occhi. Abbiamo appena visto come per Nietzsche lo spirito goethiano sia sinonimo di un atteggiamento benevolo verso la sensualità e al tempo stesso sia pervaso da un’aura autunnale, incline al raccoglimento e alla tolleranza. Questi stessi caratteri vengono da lui usati per definire il proprio ideale di musica. Vorrei citare a questo proposito una notazione illuminante che figura nei Frammenti postumi (si tratta di un c.d.’pentimento’, un brano che sarebbe dovuto entrare a far parte di ‘Ecce homo’, poi espunto durante la revisione finale): ‘Che cosa voglio dalla musica? Che sia serena e profonda COME UN MERIGGIO D’OTTOBRE. Mite, benevola, non incandescente. Che sia solare e in essa tutto risulti dolce, meraviglioso, fine e spirituale…’ Queste espressioni sono precedute da una frase che ha il sapore di una confessione e contiene al tempo stesso l’elogio – forse un po’ troppo esibito – del merito dell’amico: ‘Sono solo sei anni da che so nuovamente che cosa sia la musica: ciò grazie al ritrovamento di un mio istinto quasi dimenticato, ma grazie soprattutto alla fortuna incalcolabile di aver trovato uno stretto solidale nell’istinto, il mio amico Peter Gast, che è l’unico musicista che sappia oggi che cos’è la musica’. (KSA, Bd. 14, pag. 447-448).
Siamo così di fronte a una catena di associazioni. Il desiderio di compiacere il giovane corrispondente e confidente ‘in musicis’, lodando le arie de ‘Il leone di Venezia’, riporta alla mente di Nietzsche l’impressione profonda che ha lasciato in lui la lettura in età giovanile del racconto di Goethe (in entrambi i casi abbiamo a che fare con un leone: anche se l’accostamento è puramente estrinseco). L’impressione è indissolubilmente legata all’atmosfera dell’autunno e alla percezione della luce del sole che risplende in un cielo d’ottobre.
Questi dati esterni hanno una loro precisa valenza esistenziale: si ricollegano a stati d’animo determinati (sappiamo quale importanza rivesta ogni mutamento climatico per i nervi di quel paziente d’eccezione che è il Nostro). Al tempo stesso si ritrovano nella stessa sua nozione di musica.
Quale è la parte che spetta in questa sottile metamorfosi dei sensi e del pensiero al paesaggio lacustre e allo spettacolo naturale che si apre davanti allo sguardo del filosofo dall’altura di Villa Badia? Quanto autunno è presente in questo mese d’aprile del 1887, durante il quale alle giornate invernali si alternano quelle in cui la luce del sole risulta troppo cruda e accecante (provocando il malumore dello scrivente…) e altre poi grigie e piovose? Certo il Nostro non si diffonde su questo aspetto. E resterebbe deluso chi si attendesse dal suo epistolario un arricchimento della topografia letteraria del Verbano in generale e di Cannobio in particolare.
Vogliamo in compenso segnalare le parole con cui annuncia al Köselitz la decisione di trattenersi tutto il mese a C.: ‘Questa località è più bella di qualsiasi luogo della Riviera, più commovente – come mai me ne accorgo così tardi. Come tutte le cose grandi anche il mare ha in sé qualcosa di rozzo e di indecente, che qui è assente’
Veniamo adesso al narrato della Novella di Wolfgang Goethe. Ci proponiamo di mostrare che alla base della reminiscenza niceana si trova una rispondenza TEMATICA, e non solo atmosferica. D’altronde di una tale memoria, quando si tratti di riprese (consapevoli o inconsce, poco importa) in profondità, si può dire che è già un’esegesi.
La Novella è un lavoro letterario della vecchiaia di Goethe. Il grande maratoneta aveva 79 anni quando il racconto fu dato alle stampe (1828, nel XIII vol. dell’edizione Cotta delle opere complete). L’idea risale a più di trent’anni prima e il racconto si sarebbe dovuto chiamare ‘Die wunderbare Jagdgeschichte’ (una straordinaria storia di caccia: le ‘scene di caccia’ erano molto in voga presso gli scrittori del romanticismo, in poesia come in prosa). In un primo momento Goethe pensava di mettere in versi la trama del racconto, chiese in proposito il parere di amici come Schiller e Guglielmo di Humboldt, che lo dissuasero da questo proposito. La stesura della Novella cade nel periodo di gestazione degli ‘Anni di pellegrinaggio’, seconda parte del ‘Guglielmo Meister’, ma l’ispirazione che esprime risulta più vicina al romanzo ‘Le Affinità elettive’.
Come le altre composizioni della vecchiaia (e ricordiamo il Faust II) anche il nostro racconto si segnala per una marcata propensione verso il gusto ermetico e allegorico. Ladislao Mittner parla di una ‘stupefacente coesistenza’ sulla pagina ‘della pregnanza e della rarefazione, dell’impegno e del gioco’. Tutto è aereo in questa Novella: una volta levato il velo di ‘una fitta nebbia autunnale’ evocato nella prima frase, i personaggi si muovono in un’atmosfera cristallina. L’azione è osservata da lontano, significativamente con l’aiuto di un cannocchiale. La giornata è autunnale, il silenzio regna sulla distesa ‘come accade a mezzogiorno quando – dicevano gli antichi – Pan dorme e la natura trattiene il respiro per non svegliarlo’.
A stretto rigore di termini non abbiamo a che fare con una classica vicenda di caccia: se di caccia si può parlare, essa si svolge entro un contesto urbano e residenziale, quindi ‘improprio’. Al centro della ‘favola’ è un incendio che scoppia sulla piazza del mercato della piccola città residenziale in cui è ambientato il racconto (Weimar?), dove è sistemato un misero circo che esibisce alcune bestie feroci: una tigre e un leone. Le fiamme divampano e le fiere, terrorizzate, prendono la fuga.
Il tema del racconto è il caos, il disordine che si manifesta all’improvviso sotto forma di una calamità (l’incendio) e di una situazione di emergenza (la fuga delle fiere) e il ritorno all’ordine sociale primitivo, nel cosmo di una cittadina in cui la convivenza civile non è ancora turbata dalla Rivoluzione francese. Un motivo che stava particolarmente a cuore all’anziano scrittore e che trova un ampio sviluppo nelle Affinità elettive.
Il ritorno all’ordine deve però passare attraverso una rinuncia (altro tema centrale nella poetica e nella meditazione di Goethe): nel nostro caso si tratta della rinuncia a fare uso della violenza, in apparenza legittima, che consisterebbe nell’uccidere il leone in fuga. Il re della foresta ha trovato riparo nel cortile interno della vecchia residenza, un castello abbandonato e diruto posto su di un’altura (allegoria: del passato feudalesimo): dove sta pacificamente a prendere il sole. Verremo poi a sapere che si muove a fatica per una spina che si è infilata in una delle zampe. Nel frattempo la tigre è stata abbattuta in seguito all’intervento del paggio Onorio, che si è interposto fra di essa e la bella principessa, che scorta durante una passeggiata a cavallo in collina. Si fanno avanti i proprietari del circo che oltre ad aver subito i danni dell’incendio, vedono ora in pericolo la fonte dei loro miseri guadagni. Protestano che anche la tigre aveva un’indole pacifica e pregano perché almeno si risparmi la vita del leone. Una donna e un fanciullo, assicurano, provvederanno ad ammansirlo e lo riporteranno alla sua gabbia. Spetta al principe prendere una decisione sulla sorte della fiera. Si badi che questo personaggio, come quello della principessa, non ha un nome: entrambi adempiscono una funzione, che è quella di incarnare gli ideali politici dell’autore, che si orientava notoriamente verso forme moderne di un assolutismo illuminato.
A questo punto si fa strada il tema della musica, che sta alla base della scena finale: un finale condotto finemente dall’anziano scrittore con una perizia letteraria veramente sovrana. Confidando in Dio e nell’arte le cose vengono sistemate alla meglio, senza dover ricorrere alla violenza. Cit. pag 247 – 248 dell’edizione italiana (trad. di Ada Vigliani, Mondadori, 1995). La felicità della scena risulta dall’accostamento di due motivi (la scrittura di Goethe si rivela una volta di più come una scrittura colta): quello biblico di Daniele nella fossa dei leoni (ma si potrebbero pure citare le profezie del libro di Isaia 11, 6 e 65, 25: ‘il lupo e l’agnello pastureranno insieme, e il leone mangerà lo strame come il bue’) e l’episodio raccontato da Aulo Gellio dello schiavo Androclo che, esposto alle fiere nel circo, viene risparmiato dal leone a cui aveva in precedenza estratto una spina dalla zampa. Nel ragazzo ricciuto con gli occhi scuri che incede suonando il flauto e declama i versi di una sua toccante composizione poetica rivive il mitico Orfeo: cui la leggenda attribuisce la scoperta delle lettere dell’alfabeto ma altresì quella dell’arte medica.
Né mancano i riferimenti a scene ben note dei Vangeli. Nietzsche non poteva farsi sfuggire il significato di tali riferimenti testuali, in particolare quello relativo all’intervento benefico del fanciullo suonatore del flauto nei confronti del leone ferito. Prima che sulla fiera il ragazzo ‘dagli occhi e riccioli scuri’ prova l’effetto del suo strumento sulla comitiva formata dalla coppia principesca, un anziano principe per nome Federico, il paggio Onorio e i cacciatori scesi dalla montagna. Ciascuno rimane come ‘incantato da quel motivo che pareva una canzone’ (pag. 243). La musica in altre parole si rivela lo strumento per una catarsi delle passioni umane. Una musica rasserenante, simile a una medicina, in grado di ammansire tanto l’animo rude dei cacciatori quanto la natura ferina della belva, tutti riportando nel consorzio pacifico della città. Con la sua sequenza di note ‘senza legge, e forse proprio per questo così commoventi’ la musica del flauto – che il lettore sente ora vicina ora lontana – è simile a un filo esile ma robusto capace di legare la volontà degli astanti.
Il titolo ‘novella’ ha in sé qualcosa di paradigmatico. Goethe dice di aver avuto ‘buoni motivi’ per questa scelta. Il racconto che nella parte iniziale e in quella centrale è condotto con uno spiccato senso della realtà e un grande rispetto per le geometrie e le proporzioni del tutto, si trasforma nella scena finale in una parabola o meglio una ‘favola seria’. Con la sua compostezza e nel medesimo tempo con la sua apertura su di una utopia concreta questo finale rispondeva agli ideali estetici di Friedrich Nietzsche ed era destinato a trovare un riscontro nell
‘animo suo di ribelle e di profeta, sempre alla ricerca di un’armonia con la natura e con i suoi simili. Nella sua innocenza il fanciullo ci appare come il depositario di un sapere, di una psicologia. Egli (anche questo personaggio non ha nome) incarna la giovinezza del mondo ed è il simbolo di un tempo di primavera in cui siano presenti tutti i richiami della stagione autunnale: come, appunto, in ‘un pomeriggio d’ottobre’.
Ettore Brissa, maggio 2002