Nel plurale della Scuola di Milano: Ricordi | La lezione del Senatore
La lezione del Senatore
Non fu di proposito ,bensì per un caso se, a Milano, ho assistito a una lezione accademica del Senatore Antonio Banfi. Mi trovai a far parte dell’uditorio nell’aula del piano superiore della sede di Via Festa del Perdono: un po’, se così posso esprimermi, come Fabrizio del Dongo alla battaglia di Waterloo.
Era l’estate del 1948, un sabato mattina (diversamente avrei dovuto seguire le lezioni della prima classe liceale, al Berchet). Avevo sedici anni (“non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”). Il Caso era impersonato da Livio Sichirollo (nome, questo, chiaramente riconducibile alla Scuola milanese) che, nell’attraversare Milano sulla sua inseparabile bicicletta, mi aveva sorpreso davanti alla bancherella del libro usato di Porta Vittoria (“fai un po’ vedere cosa hai preso…”).
Livio aveva un modo tutto suo, inimitabile, di muoversi sulla bicicletta a una velocità di poco superiore a un “sur- place”. Così, una mano sul manubrio, l’accompagnai lungo le buone strade milanesi, fino all’Università degli Studi. Dove ci siamo separati, Livio dovendo ritirare certe carte nella sala dei professori. Mentre mi guardavo intorno, non intimorito dalla presenza di studentesse e studenti, tutti meno giovani di me, una voce stentorea annunciava la “lezione del Senatore”, aggiungendo “i filosofi al piano superiore”. La voce era quella del bidello, Signor Ramazzotti.
La coppia Ramazzotti (anche questo va ricordato) era prolifica. E a chi si complimentava con lui per una nuova nascita, il bidello soleva rispondere: “Un Ramazzotti fa sempre bene!”. “I filosofi al piano di sopra!”: ecco una voce, un invito, che verosimilmente hanno deciso il prosieguo dei miei studi. Senza esitazioni, mi sono unito ai molti che salivano la scala, per ascoltare la viva voce del Senatore.
Tema della lezione (come di quella seguente) un confronto fra la nozione di Natura di Spinoza e di Goethe. Non ricordo se qualcuno dei presenti nell’uditorio abbia preso degli appunti (diversamente dall’esperienza che, passati solo pochi anni, avrei fatto nelle università tedesche).
Rimane in me (trascorsi, da quel giorno, settanta anni) l’esperienza di un pensiero attuoso, di un discorrere affidato a una dizione senza pentimenti o ripetizione alcuna, di una voce che pareva invitare l’uditorio a rendersi partecipe di una riflessione comune.
Intento all’ascolto della voce del Senatore, più ancora preso nel fascino del sorriso banfiano, l’uditorio poteva dimenticare per il tempo di una lezione il “fuori” dell’anno 1948: le divisioni e contrapposizioni di campo, internazionali e intestine, della guerra fredda, fino alla minaccia incombente di un nuovo conflitto mondiale.
Altre lezioni, altre presenze
Quando, con riguardo alla storia della filosofia, si parla di una “scuola”, il pensiero corre alla dialettica delle generazioni (perché scomodare la parola “scuola” senza essersi prima assicurati di un dato primario, come la conpresenza, nel tempo, di un maestro e di suoi, più giovani, allievi?) In seconda battuta, sulla falsa riga della vicenda degli Hegelinden (o scolari di Hegel) si è portati, sull’esempio del parlamento inglese, a riconoscere, a tutti i costi, l’esistenza di una Destra e di una Sinistra, all’interno della stessa (scuola). Quanto alla Scuola di Milano, ci sono degli autori (se ne fa altrove i nomi) che ne hanno ricostruito la storia con una competenza e una dovizia di informazioni di cui non dispongo. A me è dato solamente, nelle righe che seguono,esprimere un debito di gratitudine che va a due (fra i più eminenti) rappresentanti della discendenza filosofica banfiana, miei Maestri negli anni del garzonato nello Studio pavese (1950-1954): Giulio Preti e Enzo Paci.
Chi ha seguito i corsi con indirizzo filosofico della Facoltà pavese nel primo quinquennio degli Anni Cinquanta può dire, a buon diritto, di sapere cosa fosse la “douceur de vivre”. Come su una prestigiosa passerella ha veduto sfilare uno dopo l’altro nell’aula a pianterreno dell’antica sede dell’Università docenti di Teoretica come Sofia Vanni-Rovighi, Gustavo Bontadini e Enzo Paci, di Storia della Filosofia come Luigi Pareyson, di Morale, come Giulio Preti. A questi nomi vanno aggiunti (le elezioni politiche del ’53 non erano passate invano) quelli di Ludovico Geymonat e Dino Formaggio (quest’ultimo per l’incarico di Estetica). Ecco l’Istituto di Filosofia pavese divenire, nel giro di pochi anni, una sorta di succursale della Scuola di Milano. i docenti “milanesi” erano da considerare di passaggio, dei pendolari, mentre l’unico “stanziario” era Giulio Preti. Una differenza che l’uditorio studentesco percepiva come un dato interferente nel suo rapportarsi con il corpo insegnante.
Il corso di Teoretica (Paci) si teneva.nelle ore del mattino del martedì. Quello di Morale (Preti) il giorno seguente, nel pomeriggio. Enzo Paci, raggiunta l’aula con qualche minuto di ritardo sul quarto d’ora accademico, subito riusciva a dare alle lezione il taglio e, starei per dire, la temperatura di un conversare fra privati e, al tempo stesso, di un monologare come di chi proseguisse, con il tramite della parola, una sua meditazione in ore notturne. (mi confidò un giorno, nello studio della sua abitazione milanese, di avere contratto l’abitudine del lavoro notturno nei mesi della prigionia negli Offlag tedeschi)
Giulio Preti entrava in Università puntualmente all’inizio dell’ora accademica a lui riservata, e passeggiava all’interno del quadriportico, fumando una delle sue micidiali sigarette, per la durata del quarto d’ora (“Mi pagano a ore, caro Brissa, e devo staccare il cartellino”). Della lezione pretiana (del fascino, della temperatura e del profitto per quanti hanno avuto il bene di seguirla) molti hanno scritto (compreso il sottoscritto) e non è qui il caso di ripetere cose già dette.
Altre biciclette: Dino Formaggio
Finiti gli studi a Pavia, con una tesi in filosofia morale: relatore Giulio Preti, dopo un anno di insegnamento in un’Istituto magistrale, mi sono trovato a vivere lontano dalle amate città lombarde. Lo status di migrante, o vogliamo dire docente all’estero, mi predisponeva, in qualche modo, a fungere da depositario, nei relativamente frequenti incontri con i rappresentanti della Scuola milanese (e qui occorre il nome di Remo Cantoni)
di confidenze, ricordi, commenti, o giudizi dell’uno sull’altro personaggio, su cui il tacere è bello. Vi accenno per due motivi il primo è che, nel ricordo, la vicenda della Scuola mi si viene configurando quale quella di una grande famiglia. Il secondo motivo: negli anni che è durata la nostra amicizia, non mi è mai capitato di udire dalla bocca di Dino Formaggio un cenno, allusione o battuta che potessero, anche da lontano, somigliare a un pettegolezzo. Il mio rapporto a Dino non è mai stato“frontale”. Non ricordo di avere mai assistito a una sua lezione “ex cathedra”, anche perché la chiamata come incaricato per l’Estetica (forse in qualche modo propiziata da un mio intervento sui fogli di “Università Nuova”) coincise con la mia partenza da Pavia. E’ fresco, invece, il ricordo di Dino conferenziere alla milanese Casa della Cultura (mia sorella Elena, ogni volta, ammoniva che non era il caso, assolutamente, di applaudire alla fine) o in occasione di presentazioni nelle gallerie milanesi di artisti riconducibili all’esperienza, per lui fondamentale, di Corrente, Vorrei, una volta di più, dire di Dino, e della sua bicicletta: ma non è facile. Solo oggi, a dieci anni dalla sua morte, mi rendo conto della differenza nell’età, anche quando, nel ’47, abbiamo fatto una (per me) storica ascensione al Col d’Olen, la Capanna Gnifetti e la Cima Margherita (Monte Rosa). Differenza di età che Dino, generosamente, annullava chiamandomi “vecchia scarpa”.
Dino Formaggio ovvero: un’altra bicicletta. Altri orizzonti, per chi, come mia sorella e me, viveva nel cocon ,freddo cocon, alto-borghese, di Via Mascheroni (la stessa dove aveva vissuto la Antonia Pozzi). La bicicletta di Dio ci trasportava, chi seduto sulla canna chi sul manubrio, per lungo i viali di Vittorio Sereni, verso l’apertura sulle periferie milanesi Nell’incontro e nel discorrere con Dino Formaggio tu intuivi la ricchezza di un’esperienza sul versante dell’arte figurativa e letteraria che si veniva configurando come un fronte aperto, un arricchimento della Scuola milanese, e al tempo stesso come una sua integrazione rispetto alla epoché husserliana.
Un tessuto di letture
Avvicinando gli esponenti della Scuola banfiana, non si poteva a meno di notare, quanto forte fosse, pur nella varietà delle indoli e degli orientamenti negli studi, l’elemento comune. Un imprintig che si manifestava per il tramite del linguaggio, di un certe pause nel dire, certe inflessioni della voce, fino all’espressione dello sguardo.Un taccuino, probabilmente, avrebbe conservato il ricordo dei frequenti rinvii a un fondo comune di letture formative che, cominciando dal “Frammento sull’amore” di Georg Simmel, comprendeva la teorizzazione dell’estetica di Max Dessoir, le opere di Max Scheler, le pubblicazioni recenti di Merleau-Ponty e Sartre. Nomi e titoli che affioravano nel corso della conversazione: mai come una precisa indicazione o un suggerimento per l’uditorio, più come un qualcosa di già noto, mai, per altro, da considerare “passé” e lasciare dietro le spalle. Quasi che la viva tensione fra i due poli della Vita e della Ratio – dove è dato riconoscere il nomos della Scuola milanese – potesse ridursi a una questione di gusto, di complicità. Il rimando a nozioni come il simmeliano “più che la vita”, o la “Lebenswelt” di Husserl, frequente nel discorso di Remo Cantoni o Dino Formaggio, era presente come un ammiccare, un riconoscersi fra persone appartenenti a una stessa cerchia.
Ancora Pavia: rondini e civette
“Quel qualcosa che è accaduto una decina di anni fa, lo chiamerò ‘scomparsa delle lucciole ‘” (P.P.Pasolini, sul Corriere della sera, 1° febbraio 1975).
Ma, alcuni anni prima delle lucciole di Pasolini, non si erano più fatte vedere, nel cielo di Pavia, le rondini ,che avevano messo dimora sulle antiche torri antistanti il Palazzo dell’Università.
Ma non a lungo. Come va letta, diversamente, la testimonianza che Enzo Paci, affida al suo “Diario fenomenologico” sotto la data 14 marzo 1956?:
“Piazza Leonardo da Vinci, isolata, quasi chiusa. Le torri medievali, scabre, rosseggianti. Le rondini le circondano. Silenzio di secoli. Mi siedo su una panchina isolata, dopo le lezioni all’università. Sento di dover ricominciare, di avere sbagliato.”
Un libro di grande spessore, e verità, questo “Diario fenomenologico” (1961), che pure non ha trovato l’attenzione che meritava.
Sempre a Pavia, la via Ugo Foscolo. Una strada del centro cittadino :“stretta e calda / curva come una cuna”. La visita, nell’aprile del 1963, la poetessa Daria Menicanti. Altro nome, questo, riconducibile all’esperienza della Scuola milanese (ha tradotto per Bompiani, su indicazione di Antonio Banfi, i “Filosofi inglesi contemporanei” di J.H.Muirhead: titolo che ha un suo posto nella “biblioteca” di cui si diceva)
Sono dedicati a G. P. (Giulio Preti) i versi di “Via Ugo Foscolo, Pavia”: “Eran quelli i tuoi luoghi, le tue voci / E là mi piace ricordarti / irto e incorrotto”). Dominano la scena “le risa delle immobili civette / feline in piedi sopra merli e spalti”. La coppia formata da Daria Menicanti e Giulio Preti si è separata legalmente nel 1954. Ma, fra i due, rimase una forte amicizia, nutrita dai ricordi e dall’affetto.
Se Giulio Preti non amava conversare durante il quarto d’ora accademico che precedeva la lezione (come accennato più sopra) questo perché, stando a un altro suo modo di dire, doveva “far passare il caffé”. Con ciò si riferiva alle integrazioni, spiegazioni, agli accostamenti che avrebbero trovato posto – in apparenza come un divagare – nella esposizione dalla cattedra, rispetto al manoscritto steso per il corso.
E rappresentavano, per l’uditorio, un “più” sempre arricchente. L’ immagine del “caffé che deve passare”, tutte le volte che l’ho sentita usare, mi ha riportato alla scena della mia prima visita nell’ abitazione del Professore di Via Palestro. E al ricordo dell’accoglienza amicale riservata dalla Signora Daria allo studente diciottenne con l’offerta di un caffé appena “passato” nella macchinetta “napoletana”.
Ettore Brissa, 19.01.2020