Teatro d’educazione o educazione al teatro? (1954)

Gennaio 16, 1954 Pubblicazioni Ettore Brissa

di Ettore Brissa

Forse il vero personaggio drammatico è nella commedia più che nella tragedia. Così l’autontimoroumenos di Terenzio o il malato immaginario di Molière. Questa è la lezione di Jean Vilar e del Théâtre National Populaire (T.N.P).

Nella tragedia classica è in gioco un ethos, una classe o l’intera società (la società dove vive l’autore o almeno quella che l’autore crea come modello): l’azione stessa è sociale e si divide fra tutti i personaggi o almeno nell’opposizione protagonista-coro (naturalmente queste caratteristiche hanno valore solo quando sono messe in opera da un regista, sulla scena e non sulla pagina, e vengono giudicate non dal lettore ma dal pubblico).

Il personaggio della commedia classica è invece più facilmente protagonista. Nella commedia la «persona» ha una piega bufa alla maschera: deve far ridere (genere e tradizione interpretativa o l’impongono), così essa è più facilmente mimabile, più mobile, più azione. D’altra parte è più difficile darle drammaticità (e cioè caricarla di un significato storico-sociale), mentre è tanto facile volgerla al ridicolo secondo i modelli tradizionali. Vilar portando a Milano e a Torino la sua edizione del Don Juan e dell’Avaro ha mostrato come dalla disponibilità del personaggio-protagonista della commedia classica si possono ottenere effetti drammatici di grande qualità.

Del Don Juan ci ha dato un’ottima seconda parte dove era (valendosi anche del suo aspetto che secondo alcuni, avrebbe dovuto invece sconsigliare una simile impresa) tutto voce, svestito di ogni imponenza fisica e giovanile, ma invecchiato e avviato alla resa dei conti senza ribellioni esuberanti, senza scossoni, ma con una compressione interna sempre più forte e intollerabile anche per lo spettatore. All’ultima scena accanto a Don Giovanni resta Sganarello – e quando si accorge che il padrone è morto grida con un buffo soprassalto «Mes gages! » e fa ridere tutti – ma poi si fissa e ripete urlando la sua invocazione «Mes gages! Mes gages!» ottenendo un contrasto sorprendente. Così Vilar ha giocato sulla facilità di contatto fra il pubblico eil personaggio della commedia, che certamente viene alla scena più dalla platea che dalla pagina di un libro.

Nell’Avare ha accettato il destino del personaggio che prevale sugli altri e si fa protagonista (forse questa commedia è meno costruita della prima) e ne ha dato una interpretazione tragica piuttosto eterodossa.

Il regista dell’Avare ha aperte due vie: la prima mira a una soluzione solo comica e consiste praticamente nel presentare la figura di Cleante (Il figlio) come la voce della ragionevolezza (si tratta di «dargli ragione» e di renderlo simpatico al pubblico); di riflesso l’Avare appare ridicolo, completamente fuori dal tempo e dallo spazio, proiettato in un vuoto riempito di risate. La seconda interpretazione, tragica, seguendo la dialettica dei personaggi (accenniamo, naturalmente, a due interpretazioni-tipo, a due estremi) rovescia sulle spalle del figlio il ridicolo del preziosismo, della leziosaggine e del luogo comune e motiva storicamente li personaggio dell’Avare come l’ultimo esponente di una borghesia laboriosa, nel quale la difesa dalle nuove generazioni diventa vizio e malattia. Vilar ha seguito questa seconda via senza togliere nulla alla mobilità e alla mimica espressiva del personaggio.

Ma il viaggio di Vilar ha portato qualcos’altro, probabilmente anche più importante, e cioè la ripresa delle discussioni intorno al teatro popolare che erano incominciate l’anno scorso in occasione delle proposte del T.N.P. e delle risposte dei nostri uomini migliori (da Visconti, a Gassman, a De Filippo) raccolte sul numero di Teatro Popolare.

Vi sono espressioni che in determinate circostanze godono di fascino «personale» e polarizzano un certo numero di problemi. Ma in un secondo momento l’accordo su di esse e cioè su quanto si voleva esprimere per mezzo loro diventa notevolmente difficile. Una di queste è l’espressione «teatro popolare» che a volte regge da sola un discorso di intenzioni, critiche e proposte. Il problema, come ogni altro attinente al teatro, è sentito particolarmente oggi, dopo che le innovazioni dell’immediato dopoguerra (formula del «piccolo teatro» — produzione di lavori prima termine di paragone di élites — contatti con l’estero — ritorno alla tradizione della Commedia dell’Arte, al Ruzzante e al Goldoni) hanno contribuito alla creazione di un pubblico. Che cosa significa teatro popolare? Che cosa e cosa si propone di essere? A queste domande Vilar ha cercato di rispondere in una conversazione tenuta in occasione delle sue recite milanesi.

Personalmente Vilar tiene a chiarire che l’impressione Théatre Populaire per lui e la sua compagnia non è che un segno di riconoscimento, un nome che unito a National, costituisce la sua carta d’identità sulle scene francesi: T.N.P. L’espressione e il concetto non sono nuovi e il compito di Vilar è molto semplice: si tratta di amministrare scrupolosamente il denaro passato dallo Stato (non dal governo) e cioè di dare un numero stabilito di rappresentazioni a Parigi e fuori con un prezzo molto basso per ogni ordine di posti. Repertorio: i classici di ogni epoca. Lo scopo sta nel distribuire «plaisir et divertissement» al maggior numero di spettatori.

Certe caratteristiche di lavoro (come l’estrema semplificazione del décor) sono giustificate dalla mobilità della compagnia che deve trasportarsi da un posto all’altro portando con sé l’arredamento per garantire la bontà dello spettacolo e la diminuzione delle spese di trasferta.

E qui tocchiamo un punto interessante, emerso dalla discussione. Il T.N.P. è semplicemente il teatro di tutti, aperto a tutti (o almeno alla maggior parte) senza discriminazione di posti (prezzo unico), di repertorio, di pubblico. L’aggettivo popolare non si riferisce dunque a una determinata classe sociale cui il teatro si rivolga, di cui sia l’espressione anche nella scelta degli autori rappresentati. Alla domanda «quale è la differenza fra il T.N.P. e la «Comédie Francaise», visto che entrambe recitano Molière in sale molto accoglienti (Palais de Chaillot, Salle Richelieu) e visto che anche la Comédie pratica prezzi popolari? Vilar ha risposto praticamente che mentre la Comédie sta ferma, il T.N.P. si muove (di qui le caratteristiche tecniche). Mentre lo spettatore va alla Comédie, il T.N.P. va verso lo spettatore e si propone di incontrarlo nella banlieu parigina o nei quartieri operai di Clermont-Ferrand dove mai non si vedeva teatro.

La distinzione è molto importante e permette di riflettere sulle definizioni precedenti: La Comédie Frangaise serve il pubblico come meglio sa e può, con l’aiuto statale, il T.N.P., sempre con l’aiuto statale, si propone di creare un pubblico. Per la prima il pubblico è un dato, per il secondo è un problema. Una preoccupazione è costante in Vilar: che qualcuno possa vedere in lui l’uomo politico (di partito) prima dell’uomo di teatro.

Il teatro popolare non deve avere funzioni didattiche, non serve nessuno e non educa nessuno, il teatro popolare serve solo se stesso e il proprio mondo. È evidente che partendo da una concezione settecentesca o mazziniana del concetto di «popolo» Vilar vede il suo peggior nemico in una definizione politico-paternalista del teatro.

D’altra parte il teatro popolare va in cerca del pubblico, vuol creare un pubblico, fare pubblico degli spettatori e cioè educarli: a che cosa? al teatro. Dunque non teatro d’educazione ma educa zione al teatro.
L’attuale teatro popolare sarebbe dunque il profeta del vero teatro popolare ciel futuro: un teatro messia che dovrà sorgere favorito da un pubblico organico, non frammentario, educato.

Ma qui sorge una domanda imbarazzante. Perché tutto ciò? Perché giungere (felicemente) al punto di adattare lo scenario alle esigenze del viaggio (tecnica esterna, dunque, se questa veramente è la sola giustificazione di una messinscena non sommaria ma essenziale)? Se fosse dimostrato che la maggior parte del pubblico (e cioè il popolo inteso come sopra) preferisce (o preferiva) trovare il suo plaisir e divertissement nel melodramma di provincia o nel teatro grandguignolesco, magari spendendo qualche franco in più, cosa ha spinto Vilar a far conoscere Molière ai francesi presentandolo con attori di qualità? Naturalmente si può rispondere invocando il suo amore per un teatro ben fatto, la sua moralità professionale che esige un lavoro sempre migliore di fronte a un pubblico sempre più numeroso.

Ettore Brissa nel giardino di casa Via Umberto I Cannobio
Ettore Brissa negli anni Cinquanta nel giardino della casa di famiglia in via Umberto I a Cannobio

Oppure si può presentare Vilar (o chi per lui: il problema evidentemente è generale) come un coscienzioso impiegato del Ministero della Pubblica Istruzione che esegue il suo ufficio senza per questo far proprio il punto di vista più o meno paternalistico di quel Ministero. Ma non basta. La formula «educazione al teatro e creazione di un pubblico s comporta delle conseguenze che vanno più lontano di quanto si possa credere. Comporta per es. una certa discriminazione del repertorio (che si voleva evitare) con la preferenza data a certi lavori (prodotti tipici della crisi) dove il teatro parla di se stesso ed espone i propri problemi e dove teorie come «tutto è teatro dentro il teatro» (unificazione della scena e della platea) e formule come quella piuttosto infelice della «religione del teatro» sono messe in bocca al personaggio: esempio estremo da noi la dicesti di Samuele di Alberto Savinio. Un’altra conseguenza (sempre nell’esperienza italiana) è la separazione di tecnica interna (che si incorpora al lavoro inteso propriamente) e tecnica esterna: come l’uso di una lunga pausa nell’oscurità prima dell’inizio dello spettacolo che ha lo scopo di conciliare il silenzio in un pubblica -male educato e avvezzo a discorrere d’affari e di pettegolezzi durante i primi dieci minuti dello spettacolo. Sotto l’espressione «tecnica esterna, si raccolgono non solo questi accorgimenti pedagogici ma anche veri e propri espedienti di regia disposti per épater le bourgeois o per disintegrare l’individuo filisteo dello spettatore borghese, tipicamente irriverente. Con ciò si vengono a proporre allo spettacolo dei fini che gli sono estranei e in qualche modo ad abbassarlo a mezzo. Resta da vedere quali sono i motivi: se cioè si possa giustificare questa apparente contraddizione senza ricorrere a quel giudizio politico e sociale che uomini come Vilar vogliono evitare. In fondo lavorare alla costruzione di un pubblico nuovo (o meglio alla modificazione di quello presente) significa per un regista riconoscere l’attuale situazione di crisi del teatro e lavorare all’interno di questa situazione, con qualche riconoscimento, con astuzia e flessibilità, cercando di uscirne. Ogni regista vi dirà che egli sente di doversi dedicare alla costruzione del pubblico (senza eccessiva arrendevolezza e senza compromessi) perché la crisi del teatro è problema tanto del pubblico come del repertorio: anzi si può dire che un repertorio nuovo è sempre in funzione di un pubblico che agisca attivamente sull’autore. Così in Francia scrittori come Anouilh partendo da contenuti intimistico-borghesi sono arrivati a risultati come L’Alouette probabilmente perché un pubblico esigente e riconoscente li costringe a dare un lavoro nuovo per ogni stagione teatrale. E sin qui le giustificazioni sono difficilmente controvertibili e si muovono tutte sul piano di un discorso sul teatro, interno al teatro.

Ma ogni regista vi dirà anche che egli (tolte le difficoltà tecniche) preferisce lavorare davanti a un pubblico numeroso sul quale le difficoltà economiche di accesso allo spettacolo non abbiano esercitato una selezione. Vi dirà anzi di aver sperimentato che un pubblico proletario numeroso si dimostra più riconoscente, più simpatetico, più intelligente delle duecento persone che possono pagarsi il lusso di un costoso spettacolo sperimentale. Ma qui, perquanto tutti d’accordo, è difficile dimostrare che queste affermazioni hanno valore probativo; inoltre è lecito chiedersi se ci si trova ancora sul piano del discorso sul teatro interno al teatro o se per caso nel regista non intervenga l’uomo con le sue simpatie o con i suoi espliciti convincimenti politici.

Ma esiste in realtà questa divisione fra l’uomo politico e l’uomo di teatro? Noi crediamo di no e questo è il punto che ci proponevamo di raggiungere. Probabilmente tutte le affermazioni che sopra abbiamo considerato possono ridursi al piano del discorso interno al teatro o del discorso tecnico propriamente inteso: e questa è la fortuna del teatro in una situazione culturale e artistica sfortunata come la nostra dove l’opposizione fra uomo politico e letterato a volte è così stridente.

AI tempo di Racine gentiluomini e ammiratori sedevano sulla scena, per quanto non si potesse parlare di un reale contatto fra l’attore e lo spettatore perché la discriminazione sociale era palese e anche perché essi finivano a intralciare i movimenti dello spettacolo. Comunque quando scende una barriera fra il palcoscenico e la platea si verifica un fenomeno che diventa particolarmente sensibile nell’età borghese. Accade una curiosa inversione per cui l’interesse «teatrale» del pubblico si rivolge alla platea e praticamente a se stesso: lo spettacolo si svolge nelle file sovrapposte dei palchi, nella gara dei cappellini, nelle discussioni al ridotto divenute una specie di accademia e di palestra per l’individualismo degli spettatori.

Da allora il problema del teatro consiste nel trovare senza pregiudizi e senza discriminazioni un pubblico che non sia la confutazione vivente dell’arte teatrale, in una sala che non rifletta le differenze sociali: un pubblico organico, sociale. Anche quando questa esigenza è formulata nel linguaggio politico resta all’interno della problematica più viva del teatro.

ETTORE BRISSA
GENNAIO 1954