Un’ occasione mancata? Karl Jaspers e la colpa della Germania
Sessanta anni fa, il 30 ottobre del 1945, davanti al tribunale militare alleato si apriva a Norimberga il processo contro i principali responsabili dei crimini del nazismo che segna l’atto di nascita di una giustizia penale internazionale. Fra gli imputati (poi assolto) l’ex presidente della Reichsbank Hjalmer Schacht rivolto allo psicologo americano G.M. Gilbert, affermava che sarebbe stato meglio lasciare i giudici tedeschi giudicare gli abusi e le atrocità di cui si erano resi colpevoli i connazionali sotto il Terzo Reich. Schacht era convinto che le condanne sarebbero state esemplari.
Dovevano trascorrere vent’anni prima che l’auspicio cominciasse a prendere forma nel processo-Auschwitz di Francoforte (l965), con il quale la macchina giudiziaria della Germania federale si metteva in moto, aprendo un capitolo destinato a non chiudersi più: quello della sanzione per la shoah e gli altri crimini perpetrati dagli aguzzini nazisti nel nome del popolo tedesco.
Se questa era la via della giustizia, via “esterna” che poteva sembrare più agevole da percorrere a quanti avevano a cuore il ristabilimento dello stato di diritto nel paese diviso dalla guerra fredda, un percorso diverso veniva intrapreso nei mesi in cui si svolgeva il processo di Norimberga da alcuni spiriti liberi che non si erano piegati di fronte alle lusinghe e alle minacce della dittatura. Era la via “interna” che faceva appello alla coscienza di tutti per appurare la colpa materiale e la responsabilità morale che ricadevano sulla nazione tedesca e i suoi componenti per il recente passato. Prendeva così l’avvio il dibattito sulla “questione”.
Un discorso che muoveva dall’interiorità del singolo per istituire, tematizzandolo, un valido rapporto comunicativo con gli interlocutori. Caratteristica dei regimi totalitari è l’imposizione della parola inautentica. Per questo dopo la “catastrofe finale” molti giovani rientrati dai fronti della guerra avevano trovato un rifugio nel silenzio e diffidavano di una lingua che, avrebbe scritto Roland Barthes, era intrinsecamente fascista.
Si trattava di convincerli ad accettare il dialogo con i più anziani, di superare la frattura esistente fra le generazioni nella comune ricerca della verità. Per fare questo si chiedeva da ciascuno uno sforzo necessario a chiarire la propria posizione di partenza esistenziale e a evitare la strada delle scusanti “storiche”. Di fronte a questa esigenza non si distingueva più fra i “giusti” e i colpevoli.
Fra gli iniziatori del discorso sulla colpa il pastore Martin Niemöller, reduce dalla prigionia nei campi hitleriani è l’autore del celebre “atto di contrizione” di Barmen mentre il filosofo Karl Jaspers,rimosso dall’insegnamento universitario nel l937 aveva alle spalle l’esperienza di un “esiliato in patria” (la innere Emigration).
Dalla vicina Svizzera, ma così lontana nell’immediato dopoguerra, faceva eco l*autorevole voce del teologo Karl Barth. Oltre che dal radicamento nella tradizione di pensiero protestante queste tre personalità erano accomunate dalla volontà di demarcarsi rispetto alla tesi della “colpa collettiva” (collective Guilt) del popolo tedesco che era stata avanzata dagli alleati contestualmente al piano Morgenthau che prevedeva la deindustrializzazione´forzata della Germania. All’interno questa tesi favoriva delle interpretazioni fuorvianti, come quella secondo cui “là dove non ci sono innocenti nessuno è colpevole ”.
Per sgomberare il campo dell’indagine si rendeva necessario il ricorso a una serie di distinzioni e differenziazioni, categoriali oltre che terminologiche. E’ questo il compito cui si sottopone il filosofo Karl Jaspers nel corso delle lezioni sulla “situazione spirituale presente della Germania” che tiene settimanalmente nell’aula magna dell’università di Heidelberg durante il primo inverno di pace 1945-1946.
Dopo l’arrivo degli americani e la fine dello hitlerismo la cittadina in riva al fiume Neckar sembrava diventata ancora più piccola. Il “Weltdorf” (villaggio mondiale) della coppia Max e Marianne Weber aveva rinunciato alla vocazione cosmopolitica un giorno del 1933 quando sul frontone della Nuova Università nella scritta dedicatoria “allo spirito” l’aggettivo “tedesco” aveva sostituto il “vivente”.
Cinque anni dopo, nella notte sul 9 novembre 1938, le camice brune avevano dato alle fiamme l’antica sinagoga nel centro cittadino. Rapidamente la vita accademica si era uniformata in tutto e per tutto ai dettami del regime nazista mentre il rettore Krieck disponeva la rimozione delle opere di Spinoza dalla biblioteca del seminario filosofico. Al pari della città la storia del pensiero doveva essere “judenfrei”.
Ma in quei mesi della fine del 1945 non tutti erano disposti a rammentare il recente passato. Altre preoccupazioni sembravano più urgenti di un esame di coscienza dal momento che il cibo veniva a mancare e gli abitanti della città, costretti a dividere le abitazioni con gli sfollati dai centri bombardati, i reduci dal fronte, i superstiti dei campi e i fuggitivi provenienti dall’est si preparavano ad affrontare i rigori della stagione in attesa che l’autorità d’occupazione permettesse la riapertura dell’università.
Primo a presentare al pubblico dei lettori italiani il libro su “La colpa della Germania” (Napoli 1947), Renato De Rosa ha accompagnato la sua traduzione con alcune note sulla composizione sociale del pubblico degli uditori che affollavano l’Aula non riscaldata per seguire quei primi interventi pubblici di Jaspers nel clima della ritrovata libertà. Erano presenti tutte le generazioni: molte le donne e fra i reduci dal fronte numerosi i feriti e i mutilati. La voce attraverso cui si esprimeva il pensiero in progress del filosofo cadeva in un silenzio da funzione religiosa, interrotto di quando in quando da applausi e altre manifestazioni di approvazione e di consenso ma anche da scalpiccii e qualche segno di scontento. Tutti avvertivano che l’interrogazione pubblica sui temi della colpa e della responsabilità poteva avere delle conseguenze esistenziali per ciascuno dei presenti.
Ed ecco Jaspers distinguere la colpa, che è di alcuni in quanto “colpa criminale” che nel presente deve essere perseguita penalmente dalla giustizia dei tribunali internazionali e in un giorno non lontano da quella tedesca, e la responsabilità morale per l’accaduto, che riguarda invece tutti coloro che, subendo, hanno tollerato l’ingiustizia senza levare la voce per denunciarla.
Eccolo focalizzare l’analisi sull’individuo preso nel suo essere in situazione e chiedere da lui uno sforzo per “rischiarare” la propria condizione esistenziale in vista di quella “conversione” interiore da cui il filosofo faceva dipendere la possibilità per il popolo tedesca di affermare nuovamente la propria dignità come una nazione fra le altre nazioni nel momento in cui si costituiva una storia comune mondiale.
L’oratore non esita ad esporsi in prima persona denunciando senza mezzi termini i limiti morali del proprio comportamento negli anni della tirannide durante i quali aveva fatto sua la divisa spinoziana “caute”. Si riferiscono a lui le parole: “in mezzo a noi ognuno ha colpa nella misura in cui è rimasto inattivo…la passività deve riconoscere la sua colpa morale per tutte le volte in cui ha mancato nel trascurare di fare tutto quel che si poteva fare per aiutare coloro che venivano minacciati, per attenuare l’ingiustizia, per opporsi”.
Cinque anni più tardi, nel l950, con lo scritto su “Ragione e antiragione nel nostro tempo” il pensatore tedesco allargherà il discorso al tradimento dei “clerici” e degli uomini della scienza (“dove inizia il cammino del male? Col tradimento del vero, con la non-ragione”) e ribadirà il concetto che “dopo il tradimento non c’è scampo che in una radicale conversione che vada fino in fondo e si assuma la colpa”.
I passi del libro che richiedono dal lettore di oggi uno sforzo dell’attenzione forse maggiore di quello che hanno dovuto compiere gli uditori nell’Aula di Heidelberg sono quelli dove Jaspers affronta il tema della “colpa metafisica”. Qui il discorso non vale solo per i tedeschi visti nella situazione storico-politica concreta del dopoguerra ma riguarda, con Kierkegaard (e si potrebbe anche ricordare “Il processo” di Kafka) la condizione umana in generale. Pagine che con ogni probabilità sono destinate a rimanere nel tempo.
A cominciare dal corso universitario sulla “condizione spirituale presente in Germania” la vicenda de “Die Schuldfrage” può essere ricostruita sulla base degli accenni presenti nel carteggio fra Jaspers e Hannah Arendt, l’allieva prediletta che nel frattempo si è stabilita a New York. Il 12 marzo 1946 da Heidelberg l’anziano maestro scrive di trovare appagante l’atmosfera del seminario filosofico (tema la kantiana “Critica del giudizio”) i cui partecipanti fanno sperare bene della gioventù tedesca: “rispetto alla massa amorfa che vedo davanti a me nella lezione mi sembra semplicemente favoloso”.
Jaspers aveva ormai capito che il tentativo di avviare un processo di rigenerazione collettiva per il tramite della libera parola si doveva in qualche modo considerare concluso. Troppo profondo era il solco che divideva il professore dalla giovane generazione tedesca che si sarebbe ritrovata nella voce di un Borchert (“Fuori davanti la porta”) e di un Celan. Quando due anni dopo,nel 1948, il filosofo dell’esistenza lasciata definitivamente Heidelberg si trasferisce a Basilea la sua partenza precede di poco l’avvento di quel “miracolo economico” tedesco il cui successo tangibile avrebbe suggerito una diversa lettura, in chiave di etica protestante, della “questione della colpa”.
Ettore Brissa, Heidelberg 11/2005